Nelle teorie positiviste del diritto, dunque, le norme valide ad un istante in un ordinamento contribuiscono a determinare l'estensione dei predicati deontici - quali azioni siano obbligatorie, vietate, permesse a quell'istante e ordinamento. Le norme valide ad un istante e ordinamento sono a loro volta individuate per relazione con degli atti linguistici, le produzioni normative che siano fonti a quell'istante per quell'ordinamento: le norme valide sono quelle poste da tali atti. Ma in cosa di fatto consista questa relazione di posizione, come vedremo, non è chiaro né pacifico.
Ciascuna produzione è caratterizzata, al minimo, da un autore, un istante in cui avviene e da un enunciato, utilizzato dall'autore per esprimersi1. Un enunciato, ora, non è altro che un segno, un oggetto materiale (o piuttosto una classe di oggetti materiali, quelli che sono le sue occorrenze): può avere e probabilmente avrà una struttura sintattica, ma non ha di per sé alcun collegamento semantico con quel mondo che da ultimo col diritto si intende regolare. Tale collegamento si realizza quando ad un enunciato viene associato un significato, una proposizione: nel nostro caso, una proposizione normativa o norma2.
A tal proposito, enunciati e norme possono essere associati da un linguaggio, cioè da una qualsiasi relazione tra enunciati e norme. In quest'ottica:
- I cosiddetti linguaggi naturali (o le loro proiezioni nel tempo, se intendiamo i primi come successioni di linguaggi nel tempo) sono solo una minima parte dei linguaggi esistenti.
- Un enunciato non appartiene al dominio di un solo linguaggio, ma di un enorme numero di linguaggi, la maggior parte dei quali, verosimilmente, non verrà mai utilizzata.
- Asserzioni come "un/il significato dell'enunciato
$e$ è$s$ " sono sempre ellittiche e sottointendono il riferimento a un qualche linguaggio.
Diversi linguaggi, ora, associano all'enunciato impiegato in una data produzione la norma o le norme da quella poste: ciascuno differisce dagli altri per quel che associa a qualche altro enunciato. Chiamiamo linguaggio di (quella) produzione l'intersezione di tutti questi linguaggi, cioè il più piccolo fra loro. È dunque valida questa equivalenza: una norma è posta da un atto di produzione se e solo se appartiene all'insieme dei significati che il linguaggio di produzione associa all'enunciato impiegato dall'autore. Chiaramente, il problema di stabilire quale sia la relazione di posizione tra produzioni e norme è stato solo spostato sul linguaggio: quale è il linguaggio di una produzione? Questa riformulazione del problema della norma posta è il motivo per cui alla teoria della posizione è stato storicamente dato un diverso nome, quello di teoria dell'interpretazione giuridica, enfatizzando così il rapporto tra enunciati e norme; ma la questione interpretativa altro non è che la questione della definizione del concetto di norma-posta.
Abbiamo introdotto la relazione di posizione dicendo che intercorre tra produzioni e norme, ma è in realtà opportuno relativizzarla ulteriormente: è infatti dubbio se le norme poste dalle produzioni possano o meno mutare nel tempo. Tratteremo perciò la relazione di posizione come triadica e parleremo, più generalmente, di norma posta da una produzione ad un istante. L'istante a cui facciamo riferimento con questo genere di espressioni, si tenga a mente, non è automaticamente o necessariamente lo stesso in cui la produzione è compiuta, ma può essere un qualsiasi altro istante.
Ci sono ora due tesi in particolare che possono essere soddisfatte o meno a seconda del concetto di norma-posta che si intenda adottare:
- Immutabilità Se una norma è posta ad un istante da una produzione, allora lo è anche a tutti gli istanti successivi. Se una norma è posta da una produzione ad un istante, allora lo è anche in qualsiasi istante precedente per il quale esista una norma posta dalla produzione.
- Unicità Per ogni produzione e istante esiste una unica norma posta da quella produzione a quell'istante.
Prima di presentare quelli che sono i diversi concetti di norma-posta rintracciabili in letteratura, è comodo circoscrivere il tema dell'ambiguità per i linguaggi che andremo considerando.
Un linguaggio è ambiguo rispetto ad un enunciato se gli associa un insieme cui appartiene più di una norma. Ragionevolmente, assumeremo che le ambiguità con cui avremo a che fare non riguarderanno mai la funzione (obbligante, permissiva, etc.) delle norme coinvolte, ma solo il fatto che ne è argomento. Assumeremo, in altre parole, che l'immagine dei linguaggi considerati sia sempre costituita da insiemi omogenei di norme, cioè insiemi cui appartengono norme con identica funzione.
Se un certo linguaggio è ambiguo rispetto all'enunciato argomento di una produzione, due opzioni sono possibili: ammettere che ciascuno dei significati coinvolti è posto dalla produzione; oppure adottare un qualche sistema di composizione dei significati che elimini l'ambiguità senza alterare arbitrariamente il contenuto deduttivo dell'insieme. Poiché è desiderabile che per ciascuna produzione esista un'unica norma posta (o almeno un'unica norma posta per ciascun istante). Occorre cioè una funzione che porti un insieme omogeneo di norme in una norma singola, e le due strategie più intuitive sono quelle di usare la congiunzione o la disgiunzione dei fatti argomento.
Per raggiungere questo risultato partendo invece da un linguaggio ambiguo, ci sono due strategie ragionevoli di mappare quest I fatti argomento delle norme associate da un linguaggio ad un enunciato non saranno mai totalmente irrelati tra loro: questi fatti, come si dice in certa letteratura, sussumeranno dei casi in comune, i cosiddetti "casi chiari". In termini di implicazione, ciò si traduce a questo modo: data una coppia di significati per uno stesso enunciato, la congiunzione dei due fatti argomento è sempre equivalente alla congiunzione di uno dei due con un terzo fatto implicato dall'altro.
e un insieme di norme è omogeneo se le norme che lo compongono hanno tutte la stessa funzione (obbligante, permissiva, etc.). In maniera del tutto ragionevole, prenderemo in considerazione solo quei linguaggi la cui immagine sia costituita da insiemi omogenei di norme. Le ambiguità linguisitche con cui avremo a che fare, in altre parole, non riguarderanno mai la funzione obbligante o permissiva, etc. delle norme, ma solo il fatto che ne è argomento.
La prima, è sostenere che non abbia senso parlare di norme poste e che bisogna limitarsi a parlare di enunciati: ciò che è valido ad un istante e ordinamento non sono norme ma enunciati. Salvo poi che, al momento di dover stabilire ciò che è obbligatorio, vietato, permesso ad un certo istante in un certo ordinamento, chiunque interpreterà questi enunciati associandovi delle norme, proprio per attivare quella referenzialità che agli enunciati difetta. Ora, o queste attività interpretative sono inutili, perché non avendo senso parlare di norme valide non esisterebbe neanche una definizione dei predicati deontici fondata su di esse, oppure queste attività, come suggerito da una diversa ipotesi più giù presentata, sono esse stesse parte della definizione del concetto di norma valida e ancor prima di quello di norma posta. Mentre la prima ipotesi è completamente al di fuori di una concezione poistivista del diritto, la seconda è accettabile: per quanto possa sembrare controintuitivo a chi avesse in mente un qualche preconcetto di norma-posta, nulla impone che la relazione di posizione tra produzioni e norme sia determinata al momento in cui la produzione è compiuta. Ma allora è comunque contraddetta la tesi di partenza, che non abbia senso parlare di norme poste. Questa tesi non può quindi essere presa seriamente in nessuna teoria positivista.
Una seconda possibilità adeguata è chiamare posta da una produzione la norma o le norme che l'autore vi ha inteso esprimere. Nell'analizzare questa concezione, parleremo per semplicità di sole norme obbliganti, ma l'introduzione di altri tipi di norme non cambierebbe la sostanza delle osservazioni. Ciascuna norma obbligante ha argomento un fatto possibile della categoria delle azioni, con azioni diverse che danno luogo a norme diverse. Conveniamo, inoltre, che ogni fatto possibile dello spazio logico normativo è identificabile con l'insieme delle sue conseguenze logiche, cioè con l'insieme di tutti i fatti da esso logicamente implicati: non esistono due fatti distinti con identiche conseguenze3.
Vi sono tre casi che materialmente sembrano potersi produrre: quello di una produzione in cui l'autore ha inteso esprimere una unica norma; quello in cui non ha inteso esprimere alcuna norma; quello in cui, con lo stesso enunciato, ha inteso esprimere più di una norma. Con qualche stipulazione, possiamo ridurli tutti al primo. Nel caso in cui l'autore non abbia inteso esprimere alcuna norma, semplicemente non esisterebbe norma posta e, di fatto, la produzione non produrrebbe conseguenze deontiche: tanto vale non chiamare 'produzioni' eventi di questo genere. Per il caso in cui ci siano più norme intese, che è forse la normalità quando l'autore è un soggetto collegiale, si può stabilire che di fatto non esista alcuna norma espressa dal collegio, non essendoci una volontà comune, ma solo volontà individuali divergenti. Si ricaderebbe perciò nuovamente nel caso di assenza di norma posta. Alternativamente, tenendo conto del fatto che verosimilmente le norme intese dai diversi individui di un collegio non saranno a due a due contraddittorie, è considerare, come unica norma espressa e dunque posta, quella avente ad argomento la congiunzione dei fatti argomento delle varie norme intese.
In definitiva, possiamo dire che questa concezione di norma-posta è più interessante di quanto la letteratura le faccia credito.
Footnotes
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Una produzione $p$ è cioè il risultato di una funzione $φ$ avente ad argomento almeno un autore $s$, un istante $t$ ed un enunciato $e$: $p=φ(s,t,e,...)$ e, per ogni $e'≠e$, abbiamo che $φ(s,t,e',...)≠φ(s,t,e,...)$. ↩
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Le norme e le proposizioni in generale possono essere pensate come classi di atteggiamenti proposizionali (meglio si chiamerebbero: atteggiamenti fattuali). Se $f$ è un fatto possibile di un qualche spazio logico, e $a=α(s,t,f)$ un qualche atteggiamento del soggetto $s$ all'istante $t$ nei confronti di tale fatto – come può esserlo un atteggiamento assertivo, o uno prescrittivo – l'astrazione di $a$ in $s$ e $t$, cioè la classe di tutti gli atteggiamenti di tipo $α$ indipendentemente dal momento e dal soggetto, è una proposizione. Le norme e le proposizioni in generale sono dunque funzioni di un fatto ed hanno così quel collegamento con lo spazio logico normativo che difetta agli enunciati. Quine osserva come le proposizioni siano un medium inutile tra enunciati e mondo, ma questo modo di intendere le proposizioni, come astrazioni su atteggiamenti proposizionali, è più in linea che no con le osservazioni di Quine. ↩
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Verosimilmente, nessuno pensa ad un fatto contemplandone a mente tutte le implicazioni e, in tal senso, sarebbe impossibile avere in mente una norma che si intenda esprimere. Se fosse però possibile elencare tutti i fatti possibili dello spazio logico normativo, si potrebbe senz'altro individuarne un sottoinsieme chiuso rispetto alla relazione di conseguenza. Chi pensa una norma, per fare un esempio utilizzando espressioni tipiche del linguaggio giuridico, non pensa a tutte le possibili fattispecie specifiche sussumibili in una generale. Ma sarebbe in grado, per ciascun fatto possibile, di dire coerentemente se ricada o meno nel campo di applicazione della propria norma: sarebbe, in altre parole, capace di essere giudice della propria norma. Per "avere in mente una norma" intenderemo dunque questa ipotetica capacità di saperne decidere le conseguenze. ↩